martes, 10 de enero de 2012

Dal dialogo al conflitto (*)

                                                                                                                     Gianni Vattimo
                                                                                                               
 Perché dunque dal dialogo al conflitto? Non è forse l’ermeneutica – quell’orientamento filosofico a cui sulle tracce di Pareyson, di Gadamer, e prima di Heidegger e di Nietzsche ho sempre cercato di ispirarmi – per l’appunto una filosofia del dialogo? Anni fa , anche in base all’esperienza di dibattiti  americani dove l’ermeneutica era diventata semplicemente il nome di tutta la filosofia “continentale” (da Habermas a Foucault a Derrida e Deleuze) sostituendo esistenzialismo e fenomenologia, avevo proposto di parlare di ermeneutica come nuova koiné, nuovo idioma comune di una larga parte della filosofia contemporanea. 



Questa diffusione, per dir così, dell’ermeneutica l’ha anche fatalmente “diluita”, come ho osservato in libri e articoli degli anni Novanta. Alla diluizione – che mi ricordava un poco l’interpretazione “leggera” dell’eterno ritorno di Nietzsche da parte degli animali di Zarathustra – “tutto va, tutto ritorna, eterna gira la ruota dell’essere” , non c’è nulla di cui dobbiamo preoccuparci – pensai allora di opporre una più dura accentuazione dell’inevitabile esito nichilistico dell’ermeneutica presa sul serio. Che ogni esperienza di verità sia interpretazione non è a propria volta una tesi descrittivo-metafisica, è una interpretazione che non  si legittima pretendendo di mostrare le cose come stanno – anzi non può affatto pensare che le cose, l’essere, “stiano” in qualche modo; interpretazione e cose, ed essere, sono parti dello stesso accadere storico; anche la stabilità dei concetti matematici o delle verità scientifiche è accadimento; si verificano o falsificano proposizioni sempre soltanto all’interno di paradigmi che non sono a loro volta eterni, ma epocalmente  qualificati. Parlavo di esito nichilistico dell’ermeneutica, riprendendo il termine da Nietzsche ma con una inflessione heideggeriana; come si sa, per Heidegger l’essere è evento, apertura proprio di quegli orizzonti storici che Kuhn chiama paradigmi. Alla nozione heideggeriana di evento io aggiungevo – credo sempre in fedeltà al suo insegnamento -  una più esplicita filosofia della storia  dell’essere di origine nietzschiana: se guardiamo alla storia dell’essere come si è data e si dà a noi occidentali (cittadini dell’Abendland, la terra del tramonto)  la lettura più ragionevole che possiamo darne è quella proposta da Nietzsche con la sua idea di nichilismo: la storia nel corso della quale, come riassume Heidegger, alla fine dell’essere come tale non ne è più nulla. Appunto dell’essere come tale: l’on è on  di Aristotele, l’essere come struttura stabile che sta al di là di ogni contingenza e garantisce la verità  immutabile di ogni vero ha il “destino” di  camminare indefinitamente verso il non-essere -più  l’essere come tale. Seguendo Nietzsche, vedevo questo processo come il filo coduttiore del divenire della cultura occidentale, dalla verità come visione  delle idee di Platone alla fondazione “soggettiva” del vero in Cartesio e Kant fino all’identificazione positivistica della verità con il risultato dell’esperimento costruito dallo scienziato e poi alla stessa “universalizzazione” dell’ermeneutica,ben oltre le scienze umane,  in teorie come quella di Thomas Kuhn.


Uno schema troppo semplicistico, come osservano gli storici della filosofia –da sempre amici-nemici della teoretica. Ma che Nietzsche e Heidegger condividono con  Dilthey , persino con Husserl e,  più remotamente, con Hegel; senza del quale non si può fare una teoretica che non sia  metafisica – giacché se ci si rifiuta alla schematizzazione troppo semplicistica della storia da cui proveniamo e in cui come interpreti cerchiamo la nostra legittimazione, non possiamo che pensare di dover rispecchiare un ordine oggettivo che dovrà fatalmente essere pensato come sottratto alle vicende storiche. Ricordo qui che, nonostante tutte le sue pretese di costituire la via  di uscita dal nichilismo nietzschiano,  dal quale doveva distinguersi proprio a causa della radicale vicinanza, Heidegger è pur sempre l’autore di frasi come “das Sein als Grund fahren lassen” (in ZSD) e “Sein,nicht Seiendes, gibt es nur.. (SuZ par. 44 vedi). E che d’altra parte, nel mio lavoro degli ultimi anni, lo schema “semplicistico” della storia occidentale come nichilismo si è ispirato anche alla nozione di secolarizzazione vista come progressiva realizzazione di quella kenosis del divino che è l’essenza del Cristianesimo.

Ecco dunque il senso dell’esito nichilistico dell’ermeneutica. Che non significa non avere più criteri di verità, ma solo che questi criteri sono storici e non metafisici; certo non legati all’ideale della “dimostrazione”, ma piuttosto orientati alla persuasione – la verità è affare di retorica, di accettazione condivisa; come è del resto anche la proposizione scientifica, che vale in quanto è verificata da altri, dalla cosiddetta comunità scientifica, e niente di più.


Ma, di nuovo: perché dal dialogo al conflitto? E’fin troppo evidente che se si dice che la verità è affare di persuasione, di condivisione, il dialogo  ha una funzione centrale. Heidegger ha spesso commentato i versi di Hoelderlin: “molti dei ha nominato l’uomo...  da quando siamo un Gespraech”.   Una “logica” heideggeriana non può che pensare la verità come risultato del dialogo e niente di più – non insomma: ci mettiamo d’accordo perché abbiamo scoperto (là fuori) la verità, ma: diciamo di aver trovato la verità quando ci mettiamo d’accordo . Dunque alla base della verità come evento (non rispecchiamento ecc.) c’è la pluralità degli interpreti e il loro accordo o disaccordo. Qui incontro di nuovo uno degli aspetti dell’insegnamento di Luigi Pareyson, l’idea che l’interpretazione può fallire. Questa idea ha sempre alquanto limitato la mia condivisione della teoria della “fusione di orizzonti” di Gadamer  e in genere del dialogo ermeneutico. Come se in quella teoria ci fosse troppo ottimismo, troppo irenismo. Un tratto di questo tipo si avverte persino nella teoria dell’agire comunicativo di Habermas. Anche presso di lui il dialogo argomentativo ha sempre l’aria di essere una faccenda tra soggetti trascendentali, tra ricercatori di laboratorio. I limiti che si incontrano sono sempre i loro limiti soggettivi, la loro eventuale opacità, anche quando sia prodotta da condizioni sociali  sfavorevoli (sfruttamento, esclusione)  che certo Habermas non intende  accettare. Oppure si tratta semplicemente di non confondere i tipi di argomentazione, come nel caso dei giochi linguistici di Wittgenstein: coi santi in chiesa ecc.   Da quando ha inclinato verso una ripresa sempre più esplicita  del kantismo in luogo del suo marxismo critico di origine, Habermas si sofferma sempre meno sui modi da cui dipende la realizzazione delle condizioni di un dialogo. Una riprova di ciò, mi sembra, è il fatto che nelle sue posizioni politiche si accentua sempre più una sorta di “istituzionalismo”, una fiducia poco giustificata nelle organizzazioni internazionali come l’ONU, della cui inefficacia nel contrastare la volontà dei paesi (del paese) forti pochi di noi dubitano,ormai.



Posso confessare senza difficoltà che sono diventato sensibile a questo problema – che riassumo nel titolo dal dialogo al conflitto - per ragioni che non hanno anzitutto a che fare con questioni interne alla teoria, ma che  sono invece  fin troppo evidentemente legate a quella che con espressione dello Hegel dell’estetica chiamerei,alquanto pomposamente,la “condizione generale del mondo”. Della quale prendiamo coscienza a partire dal senso di fastidio che ci suscita sempre più nettamente ogni richiamo al dialogo. Non solo nella recente politica italiana,dove i contendenti litigano rimproverandosi reciprocamente di non  voler dialogare, senza mai peraltro nominare la “cosa stessa”, con effetti che sarebbero comici se non ne andasse del destino del Paese. In verità, se riflettiamo sulle ragioni dell’insofferenza per  la retorica del dialogo ci rendiamo conto che stiamo solo esprimendo una rivolta ben più ampia e, se permettete, più filosoficamente  rilevante, e cioè la rivolta contro la “neutralizzazione” ideologica che domina ormai ovunque nella cultura  del primo  mondo, l’Occidente industrializzato. Si tratta di quello che spesso è stato chiamato il pensiero unico, il quale si identifica in ultima analisi con ciò che i politici chiamano – quando lo nominano – il Washington consensus, al di fuori del quale non c’è che il terrorismo con tutti i suoi derivati. Detta così, si capisce, sembra una caricatura. Ma ha il vantaggio di mostrare senza equivoci un tratto  sempre più marcato della nostra esistenza contemporanea. Che questo sia un affare filosoficamente rilevante lo può negare solo chi pensi la filosofia  come coltivazione di linguaggi e problemi totalmente altri rispetto al vivere quotidiano.  Naturalmente, anche chi vede le cose in questo modo è convinto della rilevanza “assoluta” di ciò che fa, proprio in nome di quella concezione metafisica dell’essere che lo immagina  come la struttura base del reale, nella quale conviene  “affisarsi” per raggiungere la salvezza. Ma senza prendere in esame le buone ragioni di chi – come Heidegger, Nietzsche,  e  molta filosofia contemporanea – pensa che proprio  dalla metafisica occorra salvarsi perché è prodotto e sostegno dei rapporti di dominio . Il pensiero unico nel quale siamo immersi ha il merito di averci fatto capire  - in molti sensi sulla nostra pelle – che l’oggettivismo metafisico, oggi declinato soprattutto come potere di scienza e tecnologia, non è altro che la forma più aggiornata – e più sfuggente – del dominio di classi, gruppi, individui. Neutralizzazione e potere degli esperti di ogni tipo sono la stessa cosa. E' l’esperienza che, anche nel  piccolo orizzonte della società italiana, facciamo quando vediamo la scomparsa delle differenze tra destra e sinistra. Una scomparsa che del resto è generale, almeno nel mondo occidentale della razionalità capitalistica, per quanto quest’ultima sia sempre più visibilmente irrazionale e manifesti senza alcun pudore la sua essenza puramente predatoria.


Possiamo, noi fanatici heideggeriani, riscattare finalmente l’antimodernismo di Heidegger, la sua diffidenza per il dominio tecnoscientifico universale? Tutto, o quasi,quello che gli è stato rimproverato da sempre come segno di oscurantismo da Foresta Nera, di nostalgia per la vita patriarcale delle campagne tedesche, persino, diciamolo, la sua infelice scelta  per il nazismo nel 1933,  prende un colore diverso alla luce di quanto sta succedendo oggi a causa della globalizzazione e della omologazione imperialistica del pianeta.  Lo Heidegger che si schiera con Hitler nel 1933 fa qualcosa che certo noi non potremmo mai condividere. Ma fanno lo stesso pensatori come Lukacs e Bloch che scelgono il  comunismo di Stalin. In tutti e due i casi, quale che sia la nostra preferenza per l’una delle due posizioni, si tratta dell’assunzione decisa di un impegno storico che sia l’uno sia gli altri vedono come filosoficamente determinante, ma non – almeno Heidegger – come rispondente a un valore metafisicamente universale. Voglio dire che nel caso di Heidegger, si tratta di una scelta consapevolmente “di parte”, assunta come corrispondente a un destino specifico, quello del popolo tedesco, destino che è bensì visto come appello dell'essere, ma per l'appunto di un essere che si annucia solo come specifico invio storico, nel quadro di una situazione (la potenza prevalente dell'America capitalista e della Russia staliniana) anch'essa non leggibile – nella sua prospettiva - in termini di valori ed essenze universali. Per molti aspetti, era “di parte”, non in nome di valori pretesi universali , la scelta  di Lukacs o di Bloch, che però confidavano in una razionalità globale della storia nella quale il proletariato rivoluzionario,  con il quale ritenevano di schierarsi scegliendo il comunismo sovietico, era l'agente del riscatto di tutta l'umanità. So che questo punto – la scelta di Heidegger negli anni Trenta, che vedo come molto simile, sia pure diametralmente opposta nei contenuti,a quella di personaggi come Lukacs e Bloch -  solleva questioni delicate, e lo evoco qui non certo con intenzioni provocatorie. Che forse però sono nella cosa stessa:  della neutralizzazione  oggettivistica, metafisica, tecno-scientifica che caratterizza il pensiero unico fa parte anche la buona coscienza con cui l'Occidente industriale si sente portatore dei “veri” diritti umani, dell'ordine politico giusto (al punto da volerlo imporre, o da voler far credere di imporlo, anche con la guerra ai popoli altri), dell'autentica civiltà conforme alla natura dell'uomo.  Tutto questo Heidegger ci insegna a respingere come sopravvivenza della metafisica, e cioè del dominio, anche con il suo tragico errore del 1933. Un errore che ci appare tale non perché noi ci sentiamo rappresentanti di quella vera umanità di cui l'Occidente sarebbe il portatore.

Solo, corrispondiamo,o intendiamo corrispondere, a un'altra chiamata storica in molti sensi analoga a quella che egli ritenne di  ascoltare non solo con l'adesione al nazismo nel 1933, ma soprattutto quando, a partire dal saggio su L'origine dell'opera d'arte (1936) cominciò a elaborare un concetto di evento dell'essere che, dovendolo pensare come libertà, novità, progetto – e non  come semplice sviluppo di una essenza metafisica data una volta per tutte – si trovò anche a confrontarsi con la sua natura conflittuale. Quel che accade nel pensiero di Heidegger dopola “svolta” degli anni Trenta  e che continua a provocarci, non è tanto il “mistero di iniquità” della sua adesione a Hitler,quanto la sua presa d'atto che non si può parlare di autenticità, Eigentlichkeit (la grande parola di Sein und Zeit)  se non entro l'Ereignis; tradotto: non puoi diventare autentico con una semplice decisione morale individuale,  questa è una faccenda che riguarda l'essere stesso, come dice poi nella Lettera sull'umanismo contro Sartre.  Ma devi semplicemente  stare immobile a aspettare? Anche a costo di sbagliare, tradendo certi aspetti fondamentali della  sua stessa filosofia, Heidegger pensa di doversi schierare: per e contro qualcosa, senza alcun pretesa metafisica  di neutralità sovrana, in nome di un accesso filosofico ai primi principi e valori univesali . Wer gross denkt muss gross irren, come egli ripeterà spesso negli anni successivi. Chi pensa in grande non può che errare in grande.





Ho richiamato il saggio sull'opera d'arte perché è lì che va cercato il nesso tra accadere della verità e conflitto. Ripeto in breve i passi impliciti in quanto detto fin qui (penserò anch'io gross, con  la  connessa inevitabilità dello irren?). La verità, se non è rispecchiamento di un ordine eternamente dato di essenze e strutture, è accadimento, e accadimento dialogico (Seitdem wir ein Gespraech sind.. **vedi e cita). Verità si dà quando ci mettiamo d'accordo.  Ma il dialogo sarà davvero  sempre così pacifico? La fiducia platonica, che si ritrova in Gadamer, nella sua creatività, suppone sempre che ci sia, da qualche parte, il vero.  E che qualcuno ne sappia un po' più degli altri: lo schiavo che nel dialogo socratico arriva a scoprire la verità geometrica è guidato da qualcuno che lo interroga opportunamente. Come che sia del dialogo socratico-platonico, è certo che la retorica odierna del dialogo ha molti caratteri per essere sentita come una maschera del dominio – ed è così che la viviamo di fatto nella nostra insofferenza crescente verso di essa. Ora, nel saggio sull'opera d'arte  a cui mi sto riferendo, Heidegger come si sa definisce l'opera d'arte come “messa in opera della verità”. E la lettura di questa definizione l'interpreta  giustamente  come l'affermazione del carattere “inaugurale” dell'opera. Ciò a cui Heidegger sembra pensare è che, siccome la verità di una proposizione qualunque si prova solo all'interno di un paradigma storico, il quale non è semplicemente l'articolarsi di una struttura eterna (natura dell'uomo, primi principi, ecc.) ma accade, nasce, ha un'origine (analogamente al paradigma di Kuhn),  la sede  di questo accadere va cercata nell'opera d'arte. Inaugurale in questo senso, possiamo pensare,  è la Divina Commedia, Shakespeare, Omero, e anzitutto la Bibbia.  Nello stesso saggio, mentre sviluppa a lungo l'idea dell'opera in quanto luogo di accadere della verità come apertura di un orizzonte storico,nascita di un linguaggo ecc., Heidegger indica anche altri modi di accadere della verità oltre all'opera d'arte – CITA HW – che però non discute più ampiamente, e che restano definitivamente fuori dall'orizzonte dei suoi scritti successivi, sempre orientati a cercare l'evento della verità nella poesia o nella saggezza originaria delle sentenze dei presocratici.  Quel che costituisce la base della forza inaugurale dell'opera d'arte,e questo mi sembra oggi più importante di quanto non mi apparisse in passato, è il fatto che essa mantiene aperto il conflitto tra mondo e terra.. Due termini che, senza ripetere qui analisi svolte altrove, vanno intesi l'uno, il mondo, come l'orizzonte articolato, il paradigma, che l'opera inaugura e dentro cui ci fa “abitare”; l'altro, la terra,come quella riserva di sempre ulteriori significati che, come dice il termine stesso, sono legati alla vita – della natura e della persona – e che costituiscono  sempre un alone oscuro da cui proviene la spinta a progettare, a cambiare, a divenire altro. L'esistenza, pensa Heidegger,è progetto; e l'essere stesso in quanto si dà solo attraverso l'uomo che è il suo “pastore” o anche luogotenente, è evento in quanto novità, indeducibilità, accadimento puro e semplice, non necessario ma sempre inaugurale. La storia dell'essere, del resto, che in  Heidegger è il concatenarsi, problematico, delle aperture, dei paradigmi,  è possibile perché c'è “la terra”, e cioè il succedersi delle generazioni: è a questo ritmo – si ricordi il saggio sul detto di Anassimandro – che i  paradigmi , le aperture, gli eventi dell'essere lasciano il posto l'uno all'altro.

Ma la terrestrità non si lascia chiudere dentro la stabilità di un dialogo felice, che istituirebbe la verità come nascita armoniosa di una nuova apertura. La vicenda delle avanguardie del secolo XX, che Heidegger certamente visse, mostra quanta forza di “spaesamento” (Hd.,e non solo Benjamin,parlano di shock come effetto dell''opera) sia contenuta nella nascita di un'altra apertura, sia pure in quell'ambito “innocente” che è l'arte. L'accadere della verità “disturba”.. La transizione da uno a un altro paradigma – si ricorderà che  l'esempio più usato da Kuhn è l'abbandono dell'ipotesi tolemaica a favore di quella copernicana – non accade mediante un “dialogo” , ha piuttosto il carattere di un cambio “catastrofico” che non si lascia razionalizzare se non après coup. Per quanto ci si sforzi di adottare una concezione razionale della storia, non si può non vedere che le grandi trasformazioni, che certo non accadono in un solo momento,  non sono mai effetto di decisioni razionali, e tanto meno “democratiche”. Per fondare la democrazia in Iraq, ci ha insegnato Bush con tutti  i suoi corifei,occorre un atto di forza. E del resto i rivoluzionari francesi – inizio ufficiale, nei manuali,  dell'Età Moderna - quando decapitano il re non lo decidono con un referendum. A cominciare dalle costituzioni, anche e soprattutto quelle democratiche, si tratta sempre di “eventi” non “logici”,  ma invece discontinui rispetto a ciò che precede, dunque anche non dia-logici. L'argomentazione razionale è certamente preferibile, nessuno dubita che su questo abbia ragione Habermas o anche Rawls. Ma l'istituzione di un orizzonte di argomentatività,almeno per ora (e dobbiamo sottolinearlo, contro ogni  irrazionalismo metafisico o di principio), implica una lotta, un conflitto, forse quello che, secondo Marx, doveve farci  uscire dalla preistoria.

Il “per ora” non è qui un'espressione solo  retorica. La scelta infelice, il tragico errore di Heidegger nel 1933  vale per noi come esempio perché ci sembra di riconoscere nella situazione attuale tratti analoghi a quella con cui lui ebbe a che fare. Come allora, siamo in una condizione “di urgenza” con la minaccia incombente di perdita della libertà. Anche se, fortunatamente, possiamo  rinunciare a cercare troppe analogie;  le differenze concrete sono tante, il riferimento a quell'epoca vale per noi solo come richiamo al  fatto che la filosofia, se non vuole essere metafisica sempre solo apologetica delle cose come stanno,  deve guardare alla condizione universale del mondo e lasciarsene interpellare. Già pensarla così, però, la mette nella necessità di  impegnarsi. Non si può cercare di uscire dalla metafisica – oggettiva, apologetica, “realistica” - senza  venir coinvolti nel conflitto da cui soltanto puo' scaturire la verità-evento. La libertà – la progettualità umana in cui soltanto si annuncia l'essere come tale -  è sempre minacciata dalla metafisica (cioè dalla violenza del dominio). Ai tempi della svolta di Heidegger, era minacciata dal chiudersi della morsa di imperialismo capitalistico, comunismo staliniano e nazismo tedesco. Oggi la minaccia sono le forze neutralizzanti della  globalizzazione in cui il dominio si nasconde sotto la maschera della razionalità economica e della scienza-tecnica vista come sola speranza di “progresso” e di “pace”. La nostra situazione è, per certi versi,più insidiosa, anche se infinitamente più comoda,  di quella degli anni Trenta. Il tacitamento di ogni conflittualità – che allora certo era invece assai più esplicita – realizza quella condizione che Heidegger stigmatizzava nella citazione platonica che fa da esergo a Essere e tempo: non solo non abbiamo una risposta alla domanda  sul senso dell'essere, ma ci siamo dimenticati, ci stiamo dimenticando, anche della stessa domanda. Per questo, cercare di ricordare l'essere non vuol dire altro,oggi per noi, che opporsi alla neutralizzazione,  prendere partito. Con chi e per cosa non è poi tanto difficile da stabilire,senza lasciarsi troppo impressionare dai tanti che  oggi , giustamente  anche se sempre con ragioni di tracotanza metafisica (“noi siamo i veri difensori dell'umano” ecc .), credono di dover buttare a mare l'ontologia di Heidegger per il suo errore del 1933. Sforzarsi di ricordare l'essere come progettualità e libertà significa ovviamente scegliere di stare con quelli che più progettano perché meno hanno: il  vecchio proletariato marxiano, non titolare metafisico  della verità perché  libero di vedere il mondo fuori dalle ideologie; ma portatore dell'essenza generica perché più di ogni altro individuo, gruppo,classe , è definito dal progetto,  è tutto proiettato verso la trasformazione della propria condizione  - cioè autenticamente ex-sistente. 

*Este trabajo fue el discurso "Leccion magistral de despedida de la enseñanza" de Gianni Vattimo "Lezione di congedo" de 2009. Aqui le presentamos el texto en en el idioma original  (Italiano). En unas semanas le presentaremos el texto traducido al español.

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